I test di screening sono esami non invasivi che consentono di calcolare il rischio che un bambino sia colpito da alcune anomalie cromosomiche. Sono test sicuri per mamma e bambino, attendibili nel 90% dei casi ma per i quali non va escluso un margine di errore. Il rischio di anomalie cromosomiche è maggiore in caso di presenza di anomalie nelle gravidanze precedenti, difetti genetici familiari ed età materna avanzata.
Se i risultati dei test dovessero essere positivi, la coppia valuterà se sottoporsi a ulteriori indagini, che possono comprendere esami di diagnostica invasiva, come villocentesi o amniocentesi.
“Quella della diagnosi prenatale è oggi un’offerta ampia e specializzata ed è bene che i futuri genitori siano accompagnati a scegliere il percorso più adatto al proprio caso. In questo senso è fondamentale la figura del ginecologo”, sottolinea il dottor Stefano Acerboni, specialista in Ostetricia e Ginecologia in Humanitas San Pio X.
I principali test di screening non invasivi sono il Bi-test e la ricerca del DNA fetale nel sangue materno.
Bi-test: esame del sangue e traslucenza nucale
Alla fine del primo trimestre (alla 12ª settimana di gestazione), dopo essersi consultati con il ginecologo, è possibile sottoporsi al Bi-test, un test di screening che si compone di due esami: un esame del sangue per il dosaggio degli analiti PAPP-A e Free B-hCG e un’ecografia, detta translucenza nucale, che misura soprattutto lo spessore retronucale del feto oltre ad altri parametri fetali.
La combinazione di questi due dati consente di valutare il rischio che il feto sia affetto da trisomia 13, 18 o 21 (la sindrome di Down). Questi test dunque non servono a effettuare una diagnosi di malattia, ma a calcolarne il rischio, specifico per quel singolo feto.
Il Bi-test identifica più del 90% dei feti affetti e laddove emergesse un aumentato rischio per queste anomalie, la coppia valuterà come proseguire l’iter diagnostico a seconda della propria situazione. Non sono però da escludere casi di risultati “falsi positivi” e “falsi negativi”; nel primo caso, la coppia potrebbe sottoporsi agli esami di diagnosi invasiva per poi verificare l’assenza della malattia, mentre nel secondo caso potrebbe esservi una mancata diagnosi di malattia e la nascita di un bambino affetto.
La ricerca del DNA fetale
La ricerca del DNA fetale nel sangue materno è un esame molto sofisticato, in grado di analizzare il DNA del feto circolante nel sangue della madre al fine di diagnosticare alcune anomalie numeriche dei cromosomi, come la Sindrome di Down. Nel campione di sangue materno infatti, si ricercano frammenti di DNA del nascituro provenienti dalla placenta. Il test, la cui attendibilità è più del 95%, può inoltre fornire anche informazioni sui cromosomi sessuali, x e y.
Questo esame trova indicazione in presenza di un aumentato rischio di anomalie cromosomiche per il feto dovuto alla storia familiare o alla storia clinica della gestante, oppure su richiesta della coppia a seguito di un processo di counseling. È infine indicato nel caso in cui sia emerso un aumentato rischio per il feto, a seguito dell’esito della translucenza nucale, qualora la coppia non se la senta di affrontare il rischio di una diagnostica invasiva (villocentesi o amniocentesi).
“In questi anni, grazie all’introduzione dei test di screening, si è ridotto di molto il numero di villocentesi e amniocentesi eseguite e, di conseguenza, la pericolosità delle diagnostiche invasive (che nell’1% dei casi possono provocare la perdita della gravidanza) che oggi per lo più vengono riservate alle pazienti che presentano un rischio aumentato durante lo screening”, ha concluso il dottor Acerboni.
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