L’espressione “gambe pesanti” è entrata nel lessico corrente ma, di preciso, che cosa intendiamo quando parliamo di questo disturbo?
Per fare luce sui dubbi frequenti della maggior parte dei pazienti, abbiamo interpellato la nostra esperta, la Dottoressa Elisa Casabianca, Ambulatorio di Chirurgia Vascolare di Humanitas San Pio X.
Che cosa intendiamo quando parliamo di “gambe pesanti”?
La definizione evoca molto bene quel senso di fastidio correlato all’accumulo di liquidi negli arti inferiori.
Le gambe possono essere visibilmente ingrossate e talvolta, premendo con un dito sulla cute, rimane come un’impronta scavata. Questo segno clinico, definito fovea, è una caratteristica propria del ristagno di fluidi nella parte bassa della gamba.
Quali sono le cause e quali sintomi presenta il disturbo delle “gambe pesanti”?
Le cause possono essere molteplici, non tutte di origine circolatoria.
È opportuno iniziare la visita approfondendo la storia clinica del paziente nella sua globalità, indagando sulle patologie presenti e pregresse e i farmaci assunti.
Le principali cause vascolari delle “gambe pesanti” sono il linfedema e più frequentemente l’insufficienza venosa cronica.
In entrambi i casi, i liquidi tendono a impegnare gli spazi fra le cellule anziché essere correttamente drenati verso il cuore dal circolo venoso e dal circolo linfatico.
Nel caso dell’insufficienza venosa, la parete delle vene superficiali tende a essere particolarmente lassa e dilatabile e le vene, diventate varicose, iniziano a sporgere in superficie, come fossero gomitoli gonfi e bluastri.
Le valvole al loro interno non si chiudono più correttamente, riducendo quindi ulteriormente lo scarico del sangue. Oltre al gonfiore, possono insorgere crampi notturni, arrossamenti cutanei, capillari evidenti, eczemi e aree di imbrunimento della cute, specie sulla faccia interna della caviglia.
Quando si presentano questi sintomi, è opportuno rivolgersi allo specialista chirurgo vascolare e sottoporsi a un esame EcoColorDoppler.
Esistono rimedi efficaci contro questo disturbo?
Certamente. Si parte da un approccio conservativo con un idoneo stile di vita, all’assunzione di terapia flebotonica e soprattutto all’utilizzo costante della calza elastocompressiva. Nei casi più avanzati il bisogna ricorrere al trattamento chirurgico.
Quando è davvero necessario intervenire chirurgicamente?
È opportuno intervenire quando lo stadio di insufficienza venosa pone il paziente a rischio di complicanze più severe, come le varicoflebiti o le ulcere.
Di solito le persone associano la chirurgia all’immagine sgradevole legata all’anestesia, alla sala operatoria, al lungo periodo di degenza.
Nel caso delle varici, si tratta di una preoccupazione da accantonare. Negli ultimi anni è possibile intervenire in modo mini-invasivo.
Anziché sfilare le vene, una nuova tecnica prevede di occluderle con il calore dall’interno, grazie ad appositi cateteri posizionati sotto guida ecografica.
Con questa tecnica, conosciuta come termoablazione in radiofrequenza, la vena safena viene trattata senza tagli chirurgici e con la sola anestesia locale, permettendo una ripresa pressoché immediata delle attività quotidiane.
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